Licenziamento disciplinare e legittimo rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità prescritte dal datore di lavoro.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 770 del 12 gennaio 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 770 del 12 gennaio 2023, si è espressa in merito alla legittimità del rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione in maniera conforme a quanto disposto dal datore di lavoro nel caso in cui l’ordine impartito dal datore di lavoro sia illegittimo.
Nel caso in esame, una cassiera del supermercato veniva licenziata per giusta causa, per avere consentito a tre clienti di oltrepassare le casse senza pagare i prodotti prelevati. In particolare, le veniva imputato di non aver invitato i predetti clienti a depositare la merce sul nastro trasportatore come prescritto dal regolamento aziendale, essendosi la lavoratrice limitata a registrare le quantità di ciascuna tipologia di prodotto indicate dai clienti in misura notevolmente inferiore a quelle effettive prelevate.
La lavoratrice impugnava il licenziamento rilevando che i tre clienti avevano preteso in modo intimidatorio di pagare un quantitativo di merce inferiore e che, pur avendo segnalato alla guardia giurata la loro presenza, questa non era intervenuta tempestivamente.
Il licenziamento, confermato in primo grado, veniva annullato dalla Corte di Appello, con condanna della società alla reintegra e al risarcimento del danno.
Avverso la suddetta sentenza, la società proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 1460 c.c. secondo il quale la parte chiamata ad adempiere può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. In particolare, la società affermava che il rifiuto della lavoratrice di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro fosse idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venire meno la fiducia nel futuro adempimento della stessa e a giustificare pertanto il recesso.
La Corte di Cassazione evidenziava in via preliminare che l’ampio ambito applicativo dell’art. 2087 c.c. rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata. Confermava poi che l’inadempimento datoriale di tale onere non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione, che è legittimo solamente quando non risulti contrario alla buona fede, ex art. 1460 co. 2 c.c.
Tanto chiarito, il giudice di legittimità rilevava che nel caso in esame la parte datoriale fosse venuta meno all’obbligo di protezione della dipendente rispetto a comportamenti minacciosi ed idonei ad esporre la cassiera al pericolo per la propria incolumità da parte dei tre clienti, con la conseguenza che l’inadempimento posto in essere dalla dipendente, non come rifiuto di svolgere la prestazione ma come esecuzione della stessa in maniera non conforme alle modalità prescritte dalla società, dovesse giudicarsi legittimo e giustificato ai sensi del co. 2 dell’art. 1460 c.c.
La Corte di Cassazione rigettava, pertanto, il ricorso per insussistenza del fatto contestato pronunciando il seguente principio di diritto: “il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venire meno la fiducia del futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2 c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alla circostanze concrete”.
Il committente e l’appaltatore rispondono per gli infortuni sul lavoro.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 375 del 10 gennaio 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 375 del 10 gennaio 2023, ha ribadito che il committente è solidalmente responsabile con l’appaltatore per gli infortuni occorsi ai dipendenti di quest’ultimo nell’ambito dello svolgimento dei lavori oggetto dell’appalto.
Nel caso di specie, a seguito di un infortunio letale occorso a un lavoratore, l’INAIL agiva nei confronti del datore di lavoro e dei civilmente responsabili dell’infortunio al fine di ottenere il rimborso delle prestazioni previdenziali pagate alla moglie vedova del lavoratore.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda di regresso proposta dall’INAIL condannando il datore e il committente al pagamento.
La Corte d’Appello, alla luce del fatto che il committente non si era limitato ad un mero controllo della rispondenza dei lavori appaltati al capitolato, ma aveva anche dettato disposizioni specifiche sui lavori e sulla sicurezza, ingerendosi non solo nella determinazione dello svolgimento dei lavori ma anche in materia di sicurezza, confermava la responsabilità del committente.
Avverso tale decisione, proponeva ricorso il committente che lamentava che il giudice territoriale lo avesse ritenuto responsabile al di là della concreta incidenza della sua condotta circa la causazione dell’infortunio.
La Suprema Corte respingeva il ricorso specificando che la responsabilità del committente è configurabile in tutti i casi in cui egli assuma una posizione di garanzia, avendo lo stesso l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutela dell’integrità e della salute dei lavoratori.
In particolare, la Corte ribadiva che “l’azione di regresso è esperibile non solo nei confronti del titolare del rapporto, ma anche di chi assume una posizione di garanzia nel luogo di lavoro, e cioè nei confronti di tutti coloro ai quali incomba l’obbligo di tutelare l’incolumità degli occupati al di là della qualifica formale di datore di lavoro, sicché il debito di sicurezza sussiste nei confronti di tutti coloro che in ragione dell’attività svolta siano gravati di specifici obblighi di prevenzione nei confronti dei lavoratori a rischio”.
Giusta causa e giustificatezza del licenziamento irrogato al dirigente.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 88 del 3 gennaio 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 88 del 3 gennaio 2023, si è espressa in merito alla corretta interpretazione dei concetti di giusta causa e giustificatezza posti alla base del licenziamento del dirigente.
Nel caso di specie, un dirigente subiva un licenziamento disciplinare da parte della società ex datrice di lavoro conseguentemente alla ricezione di un rapporto ispettivo di Banca d’Italia contenente gravi rilievi riconducibili alla responsabilità del dirigente. Il dirigente impugnava il licenziamento irrogato, chiedendo che venisse accertata l’illegittimità del medesimo e che la società venisse condannata al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare.
La Corte d’Appello adita, in parziale riforma della decisione del Tribunale, rigettava parzialmente le domande formulate dal lavoratore. In particolare, ritenendo non più integrata la giusta causa del licenziamento ma solo la giustificatezza dello stesso, condannava il dirigente a restituire le somme riconosciutegli in primo grado a titolo di indennità supplementare, confermando, di contro, la condanna della società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Avverso tale decisione proponevano ricorso in Cassazione sia il lavoratore che, in via incidentale, la società. La società, in particolare, contestava la qualificazione operata dalla Corte in merito alla mera giustificatezza del licenziamento intimato, sostenendo che le mancanze accertate dovevano comunque ritenersi sufficienti per ritenere pregiudicato in maniera irreparabile il rapporto fiduciario. Pertanto, secondo la società, neppure l’indennità sostitutiva del preavviso doveva ritenersi dovuta.
La Corte di Cassazione rigettava i ricorsi proposti da ambo le parti. In particolare, in merito alle censure formulate in via incidentale, la Corte osservava la correttezza della valutazione svolta dalla Corte d’Appello, la quale aveva ritenuto che le violazioni di rilievo disciplinare contestate “mettessero comunque in crisi la fiducia sul futuro corretto adempimento del ruolo dirigenziale attribuito in relazione alle direttive aziendali, e che quindi il recesso non fosse privo di giustificatezza”.
La Corte, infatti, ribadiva che, mentre per accertare la giusta causa del licenziamento è necessario verificare la potenzialità della condotta contestata di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, ai fini della qualificabilità del recesso nei termini della giustificatezza è sufficiente che la lesione del rapporto fiduciario sia tale da far rilevare o la mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili "ex ante" o l’importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro.