lunedì 27 marzo 2023

NEWSLETTER DEL 27 MARZO 2023

Tempestività della contestazione disciplinarsi: deve valutarsi con riferimento al momento in cui il datore di lavoro acquisisce conoscenza della condotta contestata.

(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 7467 del 15 marzo 2023)

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7467 del 15 marzo 2023, ha ribadito che al fine di valutare la tempestività della contestazione disciplinare è opportuno fare riferimento al momento in cui il datore di lavoro acquisisce conoscenza della condotta disciplinarmente rilevante.

Nel caso in esame una lavoratrice impugnava il licenziamento comminatole per aver addebitato alla società datrice di lavoro spese di carburante non riferibili allo svolgimento dell’attività lavorativa.

In particolare, la lavoratrice contestava la violazione del principio di tempestività della contestazione disciplinare in quanto, pur risalendo le condotte agli anni 2015 e 2016, la contestazione disciplinare era stata formulata solamente nel febbraio del 2017.

Il Tribunale accoglieva il ricorso della lavoratrice e dichiarava illegittimo il suo licenziamento.

La Corte d’Appello, invece, in riforma alla sentenza di primo grado, riteneva il licenziamento legittimo. In particolare, secondo quanto affermato dal giudice di secondo grado in sintonia con i precedenti di legittimità, l’immediatezza della contestazione non deve valutarsi avendo riguardo al verificarsi dei fatti contestati ma al momento in cui il datore di lavoro ha contezza degli stessi. Ebbene, nel caso in esame, la società aveva preso cognizione dei fatti imputabili alla dipendente solamente nel gennaio 2017, in occasione delle verifiche dei conti per la chiusura del bilancio del 2016. La contestazione, dunque, inviata nel febbraio 2017, doveva, secondo la Corte d’Appello, considerarsi tempestiva.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la lavoratrice, lamentando la violazione del principio di immediatezza e tempestività della contestazione disciplinare.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso ricordando che “il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza. Difatti, l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente non può tradursi in un danno per il datore di lavoro né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente”.

E’ nullo il licenziamento nel caso in cui l’intento ritorsivo datoriale abbia efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro.

(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord., n 6838 del 7 marzo 2023)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6838 del 7 marzo 2023, ha ribadito che per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.

Nel caso di specie, una lavoratrice impugnava il licenziamento irrogatogli per giustificato motivo oggettivo da una Associazione, lamentando la natura ritorsiva dello stesso.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello accoglievano le domande del lavoratore ritenendo, nel caso di specie, assente il giustificato motivo di licenziamento e, anzi, ritenendo il licenziamento “una reazione al rifiuto di rinunciare al superminimo” da parte della lavoratrice.

La Società proponeva ricorso per Cassazione contestando, in fatto, la natura ritorsiva del licenziamento.

La Corte di Cassazione, evidenziando che nel caso non fosse possibile entrare nel merito della ricostruzione fattuale della vicenda, rigettava il ricorso della Società. Nelle sue motivazioni la Corte affermava: “Per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso” Cass. n. 9468 del 2019.

Pertanto, essendo, nel caso in esame, le ragioni del licenziamento assoggettabili ad un mero intento ritorsivo nei confronti della lavoratrice, esso doveva considerarsi nullo.

La genericità delle mansioni rende il patto di prova nullo.

(Corte d’Appello Milano, Sez. Lav., Sent. n. 258 dell’8 marzo 2023)

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 258 dell’8 marzo 2023, ha ribadito la nullità del patto di prova privo di una chiara e specifica descrizione delle mansioni del lavoratore.

Nel caso in esame un lavoratore veniva assunto con mansioni di “impiegato capo area”. Nel contratto si prevedeva un periodo di prova della durata di cinque mesi.

Il lavoratore veniva licenziato a causa del mancato superamento della prova.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, lamentando la nullità del patto di prova in ragione dell’omessa precisa descrizione delle mansioni a lui assegnate.

In primo grado il Tribunale respingeva la domanda del lavoratore, affermando come le indicazioni delle mansioni che costituivano oggetto del patto potevano anche essere ricostruite, per “relationem”, dalle declaratorie del CCNL applicato.

La Corte d’Appello di Milano, invece, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l’impugnazione del lavoratore, ritenendo nullo il patto di prova in forza della genericità delle mansioni indicate nel patto stesso.

In particolare, sul punto, la Corte d’Appello richiamava il principio sancito della Corte di Cassazione con la sentenza 1099/2022: “Il patto di prova deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto; è ammesso il rinvio al contratto collettivo solo se il richiamo sia sufficientemente specifico”.

Di conseguenza, atteso che, secondo la Corte d’Appello, l’indicazione circa l’assunzione del dipendente come “impiegato capo area” non poteva considerarsi un richiamo sufficientemente specifico al CCNL applicato, la Corte riteneva viziato da nullità il licenziamento impugnato e condannava la datrice di lavoro alla reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.