martedì 2 maggio 2023

NEWSLETTER DEL 2 MAGGIO 2023

È legittimo il licenziamento del lavoratore che si fa timbrare il cartellino dai colleghi.

(Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 10239 del 18 aprile 2023)

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10239 del 18 aprile 2023, ha ribadito la legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore che consegni il tesserino attestante la sua presenza in azienda ad un collega al fine di timbrarlo per risultare presente quando non abbia ancora raggiunto il luogo di lavoro.

Nel caso di specie, una società licenziava un lavoratore che, in maniera disonesta, consegnava ad altri dipendenti il proprio tesserino facendolo timbrare in sua assenza.

Il dipendente impugnava il licenziamento per giusta causa chiedendo di essere reintegrato nel posto di lavoro.

Il Tribunale confermava la legittimità del licenziamento ritenendo che la condotta contestata fosse di gravità tale da legittimare il provvedimento adottato dal datore di lavoro.

Il lavoratore impugnava la sentenza del giudice di primo grado, ma anche la Corte d’Appello confermava la legittimità del licenziamento.

Il ricorrente proponeva dunque ricorso avanti alla Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso del lavoratore e affermava che “è oggettivamente grave la condotta di chi in maniera truffaldina consegni ad altri il tesserino attestante la sua presenza in azienda, facendolo timbrare per risultare presente quando ancora non aveva raggiunto il luogo di lavoro”.

Di conseguenza, la Corte di Cassazione confermava la legittimità del licenziamento rigettando la domanda del lavoratore.

 

L’applicabilità della disciplina prevista per il licenziamento collettivo in caso di licenziamento di tutti i lavoratori impiegati in un appalto e successiva riassunzione di parte degli stessi dal subentrante. 

(Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 9650 dell’11 aprile 2023)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9650 dell’11 aprile 2023, si è espressa in merito all’applicabilità della disciplina dettata in materia di licenziamento collettivo in caso di licenziamento della totalità dei dipendenti addetti ad un appalto e successiva riassunzione di una parte degli stessi da parte del soggetto chiamato a svolgere una parte delle attività oggetto del precedente contratto d’appalto.

Nel caso di specie, una società cooperativa, in vista dell’imminente scadenza del contratto di appalto che costituiva l’unica commessa in esecuzione, procedeva al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tutti i 61 dipendenti impiegati, di cui 40 sottoscrittori di un verbale di conciliazione con la società conseguentemente intervenuta nell’appalto con loro successiva assunzione.

Uno dei soci lavoratori coinvolto dal licenziamento, tuttavia, agiva in giudizio avverso la società cooperativa ex datrice di lavoro, impugnando il licenziamento ritenuto illegittimo per nullità derivante da mancata applicazione della procedura prescritta in materia di licenziamento collettivo. 

La Corte d’Appello adita, confermando la sentenza di primo grado, rigettava le domande formulate dal lavoratore. La Corte, in particolare, affermava che il recesso della cooperativa andasse correttamente inquadrato non alla stregua di un licenziamento collettivo, bensì come plurimi licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, comprovato dalla sussistenza del nesso casuale tra la necessitata (considerata l’imminente scadenza dell’appalto) soppressione di tutti i posti di lavoro e il recesso intimato.

Avverso la sentenza emessa, proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, sostenendo l’erronea qualificazione dei licenziamenti intimati alla stregua di licenziamenti plurimi oggettivi. Il lavoratore, in particolare, lamentava che la Corte territoriale non avesse correttamente considerato l’intervenuto subentro nell’appalto della nuova società e, soprattutto, non avesse considerato che può ritenersi idoneo a derogare l’applicabilità della disciplina dettata per il licenziamento collettivo il solo subentro accompagnato dalla riassunzione dei lavoratori licenziati presso la società subentrata a parità di condizioni economiche e normative. Nel caso di specie, tuttavia, le condizioni accettate per l’assunzione presso la subentrante da parte dei 40 lavoratori non potevano considerarsi equivalenti, e dunque il licenziamento avrebbe dovuto seguire le stringenti procedure dettate dalla peculiare disciplina.

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto e, in particolare, rilevava sia l’erronea qualificazione del licenziamento intimato nei termini del licenziamento plurimo oggettivo, sia il mancato accertamento della corrispondenza della proposta di riassunzione avanzata dalla società subentrante alle condizioni previste ai fini della derogabilità della disciplina.

La Corte, pertanto, cassava la sentenza impugnata con rinvio.

 

La nullità delle clausole limitative del diritto di recesso dell’agente.

(Corte d’appello di Milano, Sez. Lav., Sent. n. 1111 del 17 febbraio 2023)

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1111 del 17 febbraio 2023, si è espressa in merito alla nullità delle clausole contrattuali poste a limitazione del diritto di recesso dell’agente.

Nel caso di specie, a seguito del recesso dal contratto di agenzia esercitato da un agente nei confronti della società mandante, quest’ultima agiva in giudizio affinché venisse accertata l’insussistenza della giusta causa posta dall’agente a fondamento del recesso e questo fosse, conseguentemente, condannato al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, alla restituzione degli anticipi provvigionali già ricevuti e al pagamento della penale concordata con clausola di stabilità (pari a Euro 190.000,00).

In primo grado il Tribunale, seppur accertando l’insussistenza della giusta causa e condannando l’ex agente alla corresponsione e dell’indennità sostitutiva del preavviso e degli anticipi provvigionali, accertava la nullità della clausola di stabilità concordata tra le parti. In particolare, la Corte evidenziava che tale clausola si poneva in contrasto con il principio secondo cui sono vietate le pattuizioni che alterano la parità delle parti in materia di recesso, in quanto tale doveva ritenersi la previsione dell’obbligo di pagare una penale così alta in aggiunta al preavviso.

La società proponeva ricorso per Cassazione sostenendo che, diversamente da quanto statuito, la ratio del patto di stabilità andasse ricercata nel garantire al preponente una continuità operativa con l’agente, che per tale impegno sarebbe stato ricompensato. Pertanto, la previsione non si poneva in contrasto con il diritto di recesso, in quanto detto patto non gli avrebbe impedito il diritto di recesso, perché l’agente avrebbe mantenuto il proprio diritto di recedere prima della scadenza, purché dando regolare preavviso.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso e riaffermava il seguente principio: è corretto che “la Corte (di primo grado), nel richiamare il precetto contenuto nel comma quarto dell'art. 1750 cod. civ., abbia valorizzato il principio secondo il quale lo stesso esprime un precetto materiale che vieta pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza di reputare nullo per frode alla legge (ai sensi dell'art. 1344 cod. civ.) il patto che contempli, in aggiunta all'obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una clausola penale che, in quanto eccessivamente onerosa a cagione del proprio rilevantissimo importo, incida in misura significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente, ed eludendo, per tale via, il principio imperativo della parità delle parti medesime nella materia del recesso; - sicuramente non implausibile deve reputarsi l'interpretazione offerta dalla Corte territoriale alla luce della cospicua onerosità della penale, atta ad indurre a reputare non libera la volontà di uno dei contraenti, ed a determinare uno squilibrio ingente fra le posizioni delle parti, contrario alla salvaguardia del principio di parità negoziale”.