Sulle conseguenze sanzionatorie per violazione del principio di tempestività della comunicazione del licenziamento disciplinare.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 10802 del 21 aprile 2023)
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10802 del 21 aprile 2023, si è espressa in merito alle conseguenze sanzionatorie per violazione del principio di tempestività della comunicazione del licenziamento disciplinare.
Nel caso in esame, una dipendente veniva raggiunta da contestazione disciplinare con lettera del 7 marzo 2017 e veniva conseguentemente licenziata per giusta causa con lettera recapitatale in data 22 aprile 2017. La lavoratrice impugnava il licenziamento sostenendo la tardività della comunicazione alla luce dell’art. 55, co. 2 e 4 del CCNL applicato, secondo cui “la comunicazione del provvedimento deve essere inviata per iscritto al lavoratore entro e non oltre 30 giorni dal termine di scadenza della presentazione delle giustificazioni, in difetto di che il procedimento disciplinare si ha per definito con l’archiviazione”.
In primo e in secondo grado, il giudice accoglieva il ricorso, dichiarando illegittimo il licenziamento per tardività della comunicazione del provvedimento disciplinare, essendo stato il licenziamento intimato decorsi 30 giorni dal termine di scadenza della presentazione delle giustificazioni, e disponeva la tutela reintegratoria di cui alla legge n. 300/1970, art. 18 co. 4, come modificato dalla legge n. 92/2012.
Avverso la sentenza d’appello, la società presentava ricorso contestando l’errata interpretazione dell’art. 55 co. 4 del CCNL nella parte in cui è stata accordata la tutela reintegratoria: in particolare, la società sosteneva che la previsione in base alla quale, in caso di mancato rispetto del termine finale, il procedimento disciplinare “si ha per definito con l’archiviazione” impone soltanto la chiusura del procedimento e impedisce l’irrogazione di valido recesso, ma non implica certamente ex se la negazione dei fatti di cui il lavoratore è stato accusato, né la presunzione iuris et de iure di positiva valutazione degli stessi da parte del datore di lavoro, e neppure la consumazione del potere disciplinare per acquiescenza (equiparabile a insussistenza del fatto contestato). La ricorrente concludeva, pertanto, che nel caso di specie il giudice avrebbe dovuto applicare la tutela indennitaria ai sensi dell’art. 18 co. 5 e non quella reintegratoria.
La Corte di Cassazione, per decidere il ricorso, richiamava l’insegnamento delle Sezioni Unite sulla differenza, anche a livello di conseguenze sanzionatorie, tra le diverse violazioni del principio di tempestività: la Corte riconosce, infatti, una distinzione concettuale tra “la violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi” e “la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato”. Nel primo caso, rileva “il semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale”, mentre nel secondo caso vengono in considerazioni esigenze più importanti, come quella di “garantire al lavoratore una difesa effettiva”. Vista la diversa ratio, a seconda della violazione, cambia il regime sanzionatorio: il mancato rispetto dei termini per la contestazione dell’addebito posto a basa del provvedimento di recesso integra violazione di natura procedimentale e comporta l’applicazione della sanzione indennitaria; il radicale difetto di contestazione dell’infrazione, invece, determina l’inesistenza dell’intero procedimento con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
Alla luce del su richiamato principio di diritto, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso censurando la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui aveva concesso la tutela reintegratoria al posto di quella indennitaria.
Sulla nozione legale di “dispositivi di protezione individuale” (D.P.I.).
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 10128 del 17 aprile 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10128 del 17 aprile 2023, si è espressa in merito alla non correttezza di limitare la nozione legale di “dispositivi di protezione individuale” (D.P.I.) esclusivamente alle attrezzature che vengono realizzate con il solo fine di proteggere la salute del lavoratore da rischi specifici e con caratteristiche tecniche certificate.
Nel caso in esame un operatore ecologico addetto alla raccolta, al trasporto e allo smaltimento dei rifiuti urbani chiedeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni da inadempimento all’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale. Il Tribunale di Cagliari, con sentenza, condannava la parte datoriale al risarcimento del danno.
Avverso tale sentenza veniva proposto appello.
La Corte d’Appello di Cagliari, in riforma della sentenza emessa in primo grado, respingeva la domanda dell’operatore ecologico ritenendo che la classificazione dell’attività di raccolta di rifiuti come “industria insalubre” rilevasse unicamente ai fini della posizione delle attività rispetto ai centri abitati e non, invece, riguardo alla qualificazione degli indumenti da lavoro come dispositivi di protezione individuale.
Avverso la sentenza di secondo grado, l’operatore ecologico proponeva ricorso per cassazione. La Corte di Cassazione cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello di Cagliari per il seguente principio di diritto: “nella sentenza n. 18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, ha affermato che "per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell'azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo"; la medesima pronuncia ha ritenuto come l' inclusione degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva svolta dovesse prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte del documento di valutazione dei rischi”.
Pertanto, la Suprema Corte affermava che l’obbligo di fornitura e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale debba essere collegata alla idoneità degli stessi a ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività, costituendo così l’obbligo da parte del datore di lavoro di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori e per pervenire la diffusione di infezioni in danno agli stessi e ai loro famigliari.
La prova del danno da stress non può essere verosimile.
(Tribunale Cosenza, Sez. Lav., Sent. n. 557 del 29 marzo 2023)
Il Tribunale di Cosenza con la sentenza n. 557 del 29 marzo 2023 si è espresso sul tema dell’accertamento della sussistenza di danni conseguenti al mobbing, affermando come non sia sufficiente allegare la documentazione medica che indichi la “verosimile” natura lavorativa di una patologia.
Nel caso di specie, una lavoratrice domandava il risarcimento dei danni biologici e materiali subiti come diretta conseguenza di una condotta mobbizzante da parte del datore di lavoro.
Le mansioni della lavoratrice erano di responsabile di negozio, si spostava fuori sede con grande frequenza per partecipare a riunioni organizzate dall'azienda, per l'allestimento di nuovi punti vendita, per la formazione di nuovi store manager o per effettuare inventari, con orari che potevano arrivare fino a 14 ore giornaliere.
Il Tribunale di Cosenza rigettava la richiesta della lavoratrice ritenendola troppo generica.
Nello specifico, nella sentenza il Tribunale rilevava che la presunta condotta vessatoria veniva descritta dalla ricorrente in modo generico, in contrasto con la necessità di individuare con precisione quali siano i comportamenti posti in essere con intento persecutorio contro la vittima del mobbing in modo ripetuto nel tempo.
Altrettanto generica, secondo il Tribunale, risultava essere la prova del collegamento tra la condotta mobbizzante e il danno alla salute.
Il giudice, a fronte della documentazione prodotta dalla ricorrente, la riteneva troppo generica e affermava che “Chi intende ottenere un risarcimento del danno per mobbing deve fornire prova del nesso di causalità, non potendo limitarsi a denunciare la semplice potenzialità lesiva del datore di lavoro”.