Il giudizio di proporzionalità tra la condotta contestata e la sanzione applicata.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 12241 del 9 maggio 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12241 del 9 maggio 2023, si è espressa in merito alle modalità ed ai criteri in forza dei quali svolgere il giudizio di proporzionalità tra la condotta addebitata al lavoratore e la sanzione irrogata.
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio avverso la società ex datrice di lavoro impugnando il licenziamento intimatogli per giustificato motivo soggettivo. Il lavoratore eccepiva, in particolare, l’erronea valutazione circa la gravità della condotta addebitatagli e la conseguente mancata applicazione della sanzione conservativa. La società, nello specifico, aveva contestato al lavoratore di essersi rifiutato di approfondire, come da richiesta datoriale, lo studio di alcuni sistemi operativi, sebbene non risultasse impegnato in altre commesse, e di aver tenuto un comportamento passivo e privo di spirito di collaborazione presso un cliente, rifiutandosi di svolgere attività di aggiornamento dei sistemi presso il medesimo, sebbene rientranti nelle sue competenze.
La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, giudicava la condotta di insubordinazione di rilevante gravità e la sanzione espulsiva quale misura proporzionata, anche in ragione della volontarietà del comportamento posto in essere.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, il quale, in particolare, eccepiva che la condotta addebitata dovesse essere inquadrata nella fattispecie di “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori” oppure di chi “esegua negligentemente o con voluta lentezza il lavoro affidatogli”, entrambe punite dal CCNL applicato con una sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto e, ritenuto il giudizio di proporzionalità svolto dalla Corte di secondo grado coerente con la scala valoriale concordata dalle parti sociali, affermava: “La Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa, giustificato motivo soggettivo e di proporzionalità della misura espulsiva ed ha motivatamente valutato la gravità dell’insubordinazione realizzata dal dipendente, senza alcuna giustificazione, in modo persistente e volontario, in aperto contrasto con l’obbligo di diligenza e di esecuzione delle disposizioni dettate dai superiori gerarchici, anche riferite alle esigenze di formazione e accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente”.
Possibilità di estendere il repêchage a posizioni libere future.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 12132 dell’8 maggio 2023)
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, è tornata ad esprimersi sul tema dell’obbligo del repêchage, stabilendo che il datore di lavoro, nel valutare la ricollocabilità del dipendente prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, si renderanno disponibili in un breve arco temporale rispetto alla data di licenziamento.
Nel caso di specie, un dipendente impugnava il licenziamento intimatogli dalla società chiedendo che si accertasse l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatogli.
Il Tribunale e la Corte d’Appello rigettavano le domande del lavoratore che proponeva ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione, in accoglimento al ricorso del lavoratore, ritenuto che la Corte d’Appello fosse incorsa nella violazione e falsa applicazione della legge per aver omesso di verificare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in un’altra posizione analoga a quella soppressa, rinviava la causa alla Corte d’Appello, in diversa composizione.
Il lavoratore riassumeva il giudizio davanti alla Corte d’Appello di Milano, che, questa volta, dichiarava illegittimo il licenziamento ed ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, evidenziando che al fine di valutare la possibilità di ricollocare il lavoratore in azienda, era necessario esaminare anche le posizioni lavorative che sarebbero divenute disponibili poco dopo la cessazione del rapporto.
La Corte di Cassazione a seguito del ricorso proposto dalla società lo rigettava confermando che “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si rendano disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso. Quando, come nel caso in esame, tale circostanza sia ben nota al datore di lavoro questi ne deve tenere conto diversamente risultando il suo comportamento pur formalisticamente corretto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede”.
Limitazione risarcitoria per la società che irroghi un licenziamento illegittimo fondato su una valutazione errata dell’Asl.
(Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. n. 11248 del 28 aprile 2023)
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11248 del 28 aprile 2023, si è espressa in merito al diritto ad una limitazione risarcitoria per la società che irroghi un licenziamento illegittimo fondato su una valutazione errata dell’Asl.
Nel caso in esame, una lavoratrice veniva licenziata dall’associazione datrice di lavoro per giustificato motivo oggettivo, a causa della sopravvenuta inidoneità fisica della stessa all’espletamento delle sue mansioni di fisioterapista, accertata dall’Asl ai sensi dell’art. 5 legge n. 300/1970.
La lavoratrice presentava ricorso avverso il licenziamento, chiedendo che ne venisse accertata l’illegittimità in quanto fondato su un errato provvedimento dell’Asl.
Sia in primo che in secondo grado, il giudice dichiarava l'illegittimità del licenziamento e condannava l’associazione al risarcimento del danno nella misura della retribuzione maturata dal licenziamento sino all’effettiva reintegra, in base all’articolo 18 della legge 300/1970, in quanto il provvedimento dell'Asl era risultato infondato a seguito di Ctu.
L’associazione impugnava per cassazione la decisione, denunciando la falsa applicazione degli artt. 18 legge n. 300/1970 e 1218 c.c. quanto al capo relativo alla determinazione degli effetti risarcitori conseguenti all’illegittimità del licenziamento, chiedendo una riduzione del risarcimento vista l’assenza di colpa, in quanto il licenziamento era stato intimato facendo affidamento sulla valutazione di inidoneità fisica formulata dalla struttura sanitaria pubblica, dalla quale non si poteva prescindere.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della società riducendo il risarcimento a cinque mensilità, riconoscendo la sussistenza dei presupposti per la limitazione risarcitoria, in quanto la società aveva fornito prova che l’inadempimento era conseguito a impossibilità della prestazione a essa non imputabile. Specificava, peraltro, che “la società non avrebbe potuto non tener conto dell’autorità e della posizione di terzietà della struttura pubblica e non avrebbe potuto certamente disattendere le valutazioni e così adibire la lavoratrice alle mansioni cui (secondo la Asl) era inidonea, se non prestandosi evidentemente al grave rischio della responsabilità per danno alla salute”.